L’album d’esordio dei Ride: Nowhere.

Share:
Metti mi piace alla nostra pagina!

Un mare piatto. Una distesa infinita d’acqua. Nel mezzo, un’unica, interminabile increspatura che si perde all’orizzonte. Appena accennata. Non un’onda alta, bianca, schiumosa. Qualcosa più come la nascita di un’onda. Un’istantanea sospesa tra la proverbiale quiete e la tempesta che seguirà.
Tutto questo è Nowhere.  È la calma più stagnante e insieme la tempesta perfetta. Un incantevole rincorrersi di ritmi claustrofobici e chitarre senza spazio e senza tempo.




ride1

Album d’esordio dei Ride, dopo una manciata di EP, forse il loro lavoro più rappresentativo e insieme più genuino della fase propriamente shoegaze. I Ride però non amano questa «gabbia di genere», e di fatto hanno qualcosa di diverso dagli altri gruppi buttati  in quel calderone: la potente sessione ritmica, forse unica nel panorama shoegaze, sempre a fuoco, concitata, a tratti acid, perfetto contrappunto alla psichedelia “controllata” delle chitarre dii Bell e Gardener. A questo si aggiunge una musicalità con venature pop, ma mai banale, che li fa uscire dalla “self-indulgence” troppo comune in quegli ambienti. Nowhere è uno di quegli album dove anche la track-list pare perfetta,  come in un ideale dualismo tra i pezzi più cupi e paranoidi, (“Decay”, “Paralysed”, “Nowhere”), e le dilatate atmosfere sognanti e poppeggianti dall’altra(“In a Different Place”, “Vapour Trail”). Nel mezzo tanto rumore.

2014Ride_Getty144588558_10060314.article_x4

“Seagull”, il biglietto di presentazione, è una sfuriata lisergica, dove basso e batteria martellanti creano un groove perfetto per gli eccheggianti  feedback delle chitarre e le voci che  si rincorrono. Il ritmo resta alto con “Kaleidoscope”, leggermente più pop, ma sempre dominata dalle voci riverberate su un muro di noise chitarristico. Dicevamo dualismo; “In a different place” è come un’improvvisa frenata, o meglio un’onda che scompare, sotto la superficie . L’arpeggio di Bell che si insinua nel contrappunto di Gardener, quasi una bolla senza tempo, un non luogo dove nasconderci («Floating in and out of time/In and out of space/No one can touch us/We’re in a different place»).

ride-wide





Ma non c’è tempo per cullarsi; come uno squarcio il riff senza tempo (non nel senso di immortale, ma proprio avulso dalla batteria!), tremolato e rimbalzante di “Polar Bear”, di chiara smithsoniana memoria ci riporta nella psichedelia più pura con la voce gelida di Gardener che ci accompagna nel viaggio («Why should it feel like a crime?/If I want to be with you all the time/Why is it measured in hours?/You should make your own time, you’re welcome in mine»).
“Dreams Burn Down” è una ballata, che tradisce l’ascoltatore però con i cadenzati ascessi furiosi di chitarra e batteria e si chiude quasi improvvisamente, come un sogno interrotto. Ancora il dualismo. Decay è ansia. Ansia post-punk, della vita mortale, della giovinezza («Now this feeling’s so alive/But, as you or anything, we die/We die»). Un’ansia che i tom della batteria di Colbert rendono molto bene, con quella specie di marcia così ben incastrata con l’arpeggio paranoide di Bell. Un senso di claustrofobia ci accompagna e continua con la non meno ansiogena “Paralysed”, dove la chitarra di Gardener, squillante, quasi cozza con quella scura e filtrata di Bell e la lunga coda post-rock, quasi slow-core. D’un tratto, come una nuvola vaporosa che si dirada, gli arpeggi di “Vapour Trail” si intrecciano e confondono, in una ballata nostalgica e psichedelica, sognante. Il suono, tagliente e phased di due 12 corde è unico. E quel finale, con gli archi che si insinuano tra le crepe del wall of sound, piano piano, è insieme commozione e perfezione. Penso che nella mia personale top ten onirica, subito dopo improbabili avventure sessuali, ci sia un quartetto d’archi che compare dal nulla, sul mio palco, a chiudere un mio pezzo. E dalla nebbia esce “Taste”, più solare, molto Stone Roses, con i piatti della batteria che vibrano, ed i ritmi che si fanno più leggeri. E proprio mentre ci stiamo rilassando ritorna il noise di “Here and Now”, quattro accordi in loop, la batteria che torna a martellare in sottofondo, e un’armonica che squarcia il muro di chitarre. Preludio perfetto alla title track, forse la più acida e noise dell’album, dove il feedback regna, straziante, continuo, sulla voce impassibile di Gardener. Nowhere è questo. Un mare che si agita e d’improvviso torna sereno, un piccolo viaggio che confonde, out of time/out of space.

Mandatory Credit: Photo by Brian Rasic/REX (197678b) RIDE RIDE - 1992

Di tutta la scena shoegaze i Ride sono forse stati i meno attaccati a questa etichetta, e probabilmente i musicisti più completi. Per questo, dopo averli sentiti agli esordi, McGee, boss della Creation records, li volle. Certo poi avere dietro al vetro uno come Alan Moulder pure aiuta! Un disco importante, in un periodo difficile da catalogare. In questi pezzi c’è la psichedelia, il rumore, l’ansia generazionale del post-punk, ma anche i semi della nascente scena rave-house (vedi basso e batteria). Tutto condito da un senso per la melodia che aprirà le strade al brit pop degli anni a venire (non a caso Bell andrà a suonare il basso nelle file degli Oasis). Un perfetto spaccato della scena brit di quegli anni, divisa tra i lustrini e i mega palchi delle band degli ’80s e l’intima angoscia delle nascenti band indie dei ‘90s.

Ti Piace questo Articolo?

odd creative agenzia di comunicazione


Previous Article

Pulp: Ti ricordi la prima volta?

 

Ti potrebbe interessare

2 Commenti