Badanti di Tutto il Mondo Unitevi

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Avevo capito mesi fa che qualcosa stava per accadere, troppo alto il tono acidulo delle loro voci, troppo insistente la «polacca» di mia zia Teresa nel chiedere un anticipo del tfr.

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Ormai non si parla d’altro il giovedì pomeriggio. Sono mesi che sulle panchine, nelle case e nelle telefonate scroccate alla badata non si parla che di questo. Avevo capito mesi fa che qualcosa stava per accadere, troppo alto il tono acidulo delle loro voci, troppo insistente la «polacca» di mia zia Teresa nel chiedere un anticipo del tfr. Destino infame per le donne di oltre cortina, partite dopo il più grande fallimento che la storia moderna abbia visto, si sono ritrovate unite nella grande, estrogenica e marronea categoria tricologica della«razza polacca». Loro si che hanno fatto una scelta di campo, scappate dal crollo sovietico, detonate in tutto il mondo, sono cadute a pioggia nelle case, negli armadi, nelle cucine delle case vecchie dei nostri vecchi. E poi per venti anni più nulla di rilevante, solo cronaca rosa mista a catarro di anziani, bestemmie e mariti rubati, matrimoni di interesse e figli concepiti per sposarsi prima e avere la pensione di reversibilità poi. Due decenni a ballare in una chiavica di balera, con lo sguardo fetido d’un vedovo con troppa brillantina, pronto per una toccata di culo a dare vita a quei pochi centimetri di virilità farmacologicamente assistita. Anni passati senza una nazione, senza patria, senza identità, ad avere come unico passaporto transnazionale la stessa tintura per capelli. Nessuna di loro ha mai fatto nulla per distinguersi, non abbiamo mai avuto la possibilità di riconoscere le ucraine dalle rumene, bulgare dalle moldave, polacche dalle ceche e le ceche dalle slovacche. Paradosso della politologia: queste donne sono l’ ultima beffarda prova della forza dell’internazionalismo socialista, del superamento del concetto borghese di «stato nazione». Tutti fratelli o meglio tutte sorelle: in fila alla posta o dal salumiere, la domenica mattina al mercato e di pomeriggio a ballare; sempre la stessa faticosa vita che si dà appuntamento il giovedì pomeriggio, a fare i conti con una settimana che di finire non ne vuole proprio sapere. Anni passati al telefono con i figli legittimi per convincerli a partire, loro che, fosse anche solo per dispetto, a emigrare ormai non ci pensano più. E pure non avrei mai pensato che a est di Berlino il mondo avesse ancora qualcosa da dire, tutto sembrava calmo al limite della narcosi, un’intera fetta di Europa dopo gli anni grigi della guerra fredda e la mattanza balcanica, finalmente si godeva un sacrosanto momento di calma e apparente benessere. Dal Baltico al Mar Nero, dall’ Estonia alla Bulgaria, tutte le ex repubbliche socialiste sono rimaste sospese tra il sogno mai raggiunto della democrazia borghese e l’abbraccio affettuosamente soffocante della Madre Russia. Come la Luna con la Terra, di fatto di non sono mai uscite dall’orbita di Mosca, strategicamente rilevanti per motivi economici, politici e militari, da nord a sud hanno garantito alla Russia la sicurezza dell’accesso al mediterraneo attraverso il Mar Nero, all’Atlantico attraverso il Mar Baltico.Un’immensa pianura ad ovest degli Urali come autostrada a basso costo per il gas degli amici oligarchi, una zona cuscinetto contro i tentativi espansionistici dell’imperialismo americano arrivato con basi, truppe e missili troppo a est, fino in Polonia. E’ questo quadro geopolitico che la rivoluzione di Piazza Maidan ha messo in crisi; infatti all’inizio del 2014, mentre il governo si apprestava a ratificare un accordo di partnerariato politico e militare con la UE, nella parte occidentale del paese, con baricentro a Kiev, il malcontento causato dalla recessione e dalla mancanza di prospettive di crescita ha definitivamente rotto il precario equilibrio sul quale si reggeva il governo filorusso di Janukovic. Dopo settimane di scioperi e decine di morti, l’ala filoeuropea e i gruppi di nazionalisti hanno costretto alla resa il presidente obbligandolo di fatto alla fuga. Diversamente da quanto i più ingenui tra gli analisti politici potevano immaginare, gli eventi hanno avuto un’evoluzione improvvisa e imprevedibile; infatti ad aprile la Crimea, forte dell’appoggio militare e diplomatico di Mosca, ha dichiarato la sua indipendenza innescando un meccanismo di detonazione a catena che sta letteralmente disintegrando il paese. L’Ucraina, come tutte le ex repubbliche socialiste, è uno stato federale organizzato in macroregioni dotate di ampie autonomie amministrative, la parte orientale è da sempre sotto stretto controllo russo sia per ragioni militari che per motivazioni etniche. Ad esempio in Crimea e in Donestk un’ampia fetta di popolazione è in possesso del doppio passaporto; questo privilegio tipicamente concesso dagli stati a vocazione imperialista  legittima quindi agli occhi dell’opinione pubblica l’interesse di Putin verso le popolazioni coinvolte nella crisi. Ho cercato sul campo un contatto diretto, qualcuno che potesse fornirmi notizie non filtrate dagli organi di informazione ufficiali, non è stato semplice ma come spesso accade le soluzioni migliori sono quelle a portata di mano e, a portata di anziana, da anni c’è la badante di mia zia. Nadia dimostra molto di più dei suoi cinquantasei anni, androgina ed essenziale come solo una donna del lontano e vecchio Est sa essere; da vent’anni è entrata a far parte della mia famiglia. Non ha mai nascosto la nostalgia per i tempi dell’Unione (come ama dire), e dei suoi racconti mi sono nutrito fin dagli anni dell’adolescenza, con interesse ed incanto, nello strenuo tentativo di tenere in vita la ragione di un sogno e di una fede politica. Il rosso ormai sbiadito della sinistra che fu incorniciava le storie di vita oltre cortina, un’epoca durante la quale Nadia aveva un lavoro da gruista, una casa, una famiglia. Diventata donna negli anni della perestrojka, ha assistito allo smantellamento del sogno comunista; dall’alto della sua gru ha visto la sua vita andare a pezzi, prima il lavoro, poi il matrimonio, in fine la casa di Sloviansk. Di Donestk, epicentro attuale della crisi, ha un ricordo “operaio”, ricca regione dell’est del paese, con un grande bacino minerario, per tutta la sua giovinezza è stata un immenso cantiere edile. I centri abitati, dormitori di massa per la manovalanza collettivizzata, erano grigi ammassi di fuliggine minerale, nelle case l’acqua potabile scorreva scura e puzzolente, al sapore di ferro e le scorte si facevano con le autobotti inviate dal partito. Assetati di libertà, ogni settimana da Kiev arrivava un rifornimento che aveva il gusto amaro di uno scambio politico. Territorio ricco, assolutamente indispensabile per l’economia nazionale, ma al tempo stesso ricattato da un rapporto di dipendenza fisiologica, socialmente non accettabile, moralmente discutibile. In quella parte dell’Ucraina, racconta Nadia, gli abitanti si sono sempre sentiti di una classe inferiore, braccia da lavoro utile solo agli interessi dei funzionari di partito prima, degli oligarchi amici degli amici poi. E così quando è arrivato il momento di presentare il conto alla nazione, di rivendicare il diritto di autogovernarsi, a Donestk non hanno perso l’occasione. Le istanze identitarie si sono innestate sull’incertezza generale per l’allontanamento da Mosca; d’altronde lo status quo, il fascino autoritario della guida carismatica di Putin, il ricordo di un glorioso passato conferiscono autorevolezza alla Russia. I rancori verso Kiev, la paura per la deriva fascistoide dei gruppi nazionalistici della capitale, l’assoluta mancanza di credibilità politica dell’UE, la diffidenza verso lo storico nemico americano fanno il resto. La memoria di Nadia va così ad un passato già visto, poco più a ovest, in Jugoslavia agli inizi degli anni ’90. Stessa matrice: una repubblica ex socialista; stesse motivazioni formali: etniche e identitarie, che trasformano la paura in terrore quando in televisione scorrono le immagini degli scontri di Sloviansk. Riconosce le sue strade, la piazza del suo primo amore e forse per questo smette di parlare. Il sospetto che la guerra sia già iniziata diventa ancora più insopportabile per la consapevolezza che ad essere distrutta, vent’anni dopo la sua partenza, sarà la vita e la speranza di sua figlia Irina. Trent’anni, con un figlio appena nato e la certezza, provata dall’esperienza materna, che emigrare significa perdere i propri punti di riferimento per vivere poi solo di ricordi. Nadia ne è sicura, mi confida che la sua vita è solo peggiorata, finanche per lei che ai tempi dell’Unione non si sentiva libera perché le era vietato l’espatrio. Paradosso beffardo, ancora oggi da badante libera di un paese capitalista, si sente in prigione perché la vacanza all’estero è un desiderio economicamente irrealizzabile. Due miserie in una vita sola, la libertà di movimento è solo un sogno, e Slovjansk in pace, l’unico frammento di patria rimasto, un lontano ricordo.

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