AC/DC: Highway To Hell

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Secondo nella discografia degli AC/DC al solo Back in Black, Highway To Hell rappresenta comunque la punta di diamante della loro produzione durante l’era del compianto Bon Scott; sino a quel momento la band era stata considerata buona, autrice di costanti piccoli miglioramenti nell’ambito dell’hard rock/blues, ma non veniva inserita da tutti tra quelle degne della massima considerazione. Prodotto da Mutt Lange e registrato presso i RoadHouse Studios di Londra, Highway To Hell raggiunse nell’arco di circa un anno il milione di copie vendute, consacrando quindi l’album della band della terra dei canguri come una delle più importanti disponibili su piazza e annunciando i fasti, mai più raggiunti in seguito, dell’epocale Back in Black.

Anche se non va sottaciuta una varietà del riffing complessivamente maggiore rispetto alle prove precedenti (il riffing ripetitivo era è sarà un’ accusa costantemente rivolta agli AC/DC) il miglioramento del prodotto è sostanzialmente da imputare a quei piccoli, costanti miglioramenti che ho già citato prima, e che, passo dopo passo, portarono i cinque rockers alla maturità necessaria per immettere sul mercato un platter degno di essere ricordato come uno dei dischi fondamentali del settore per ciò che riguarda gli anni settanta. L’equilibrio tra le due anime del gruppo (il duo Angus/Bon da un lato ed il resto della band dall’altro), mai in competizione ma sempre al servizio del dio-rock, fece si che le orde di aficionados sparsi per il globo terracqueo si ritrovassero tra le mani proprio ciò di cui avevano bisogno per alimentare il fuoco sacro della passione: sporco, ruvido, bastardissimo rock‘n‘roll elettrificato al massimo.

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Tutti e dieci i brani contenuti nel vinile sono da considerare come classici del gruppo, e fanno quasi tutti parte del live-set di Angus & Co. L’opener è l’anthemica title-track: non certo iperveloce, ma incatenante e perfettamente resa da Bon con la sua voce che, impastata da quelle robuste dosi di alcool che in seguito gli saranno fatali, veleggiava scanzonatamente tra le note del pezzo. Se avete problemi agli arti inferiori non ascoltate mai Girls Got Rhythm, dall’eccessivo battere il tempo vi si arrotolerebbero i menischi. Buona ma non eccelsa Walk All Over You, utile comunque per arrivare a Touch Too Much; irresistibile il riff e memorabile il modo di Bon di cantarla, lo spirito più puro del rock’n’roll. Estremamente dinamica, a tratti quasi isterica, Beating Around the Bush. Non particolarmente originale, ma forse la più coinvolgente a causa sia dell’indovinatissimo refrain, sia a causa della prova di Angus (molto piacevole il suo solo) è Shot Down In Flames, che poi lascia spazio a Get It Hot, che non è niente di che. Simile nella resa a Shot Down in Flames è If You Want Blood (You’ve Got It): voce, chitarra che svisa, ritmica serrata, il tutto per un altro piccolo gioiello hard rock. Love Hungry Man è quasi (quasi) una ballad, un intermezzo solo un po’ più riflessivo per poi concludere con Night Prowler, closer d’effetto con le sue chitarre lente e profonde, pezzo questo che -fra le altre cose- “fruttò” una causa al gruppo perché il serial killer Ricardo Ramirez ne prese il testo un po’ troppo alla lettera.

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Che dire? Se volete avere un sontuoso Bignami che vi spieghi cosa vuol dire rock’n’roll non avete che da procurarvene una copia, ma va anche aggiunto che se ancora non la avete evidentemente è lo stesso rock’n’roll a non interessarvi.

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