Sognando il Cigno di Utrecht

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Dasaeev si accorge troppo tardi di quanto sta per succedere e tenta in vano di opporsi a quell’incredibile arcobaleno disegnato dal genio del Cigno di Utrecht.

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Era l’estate del 1988, avevo dieci anni, ed una caldissima giornata volgeva al termine. Ero solo a casa, niente scuola ovviamente: solo gelati e teledipendenza. Quel tardo pomeriggio andava di scena la finale dell’europeo di calcio. Non era ancora l’epoca del prime time ad ogni costo, si poteva ancora derogare alle regole del danaro in virtù di orari più umani. Non ricordo in che stadio si giocasse, ma era in Germania: quella Germania Ovest destinata a ricongiungersi con l’Est dopo meno di due anni. Ricordo bene il vecchio Phonola a tubo catodico ed io stravaccato a godermi le immagini di una partita che non vedeva coinvolta la nazionale italiana; guardavo il televisore affascinato da quei grandi atleti che avevano onorato quell’europeo: l’Olanda di Gullit e Van Basten, e quell’ultima, romantica Unione Sovietica, che vantava il fortissimo portiere Dasaeev. Sono stato sempre abbastanza una pippa a giocare a calcio, eppure mi divertivo tantissimo a giocare tutti i giorni coi miei amici, tentando di emulare le glorie di quel grande calcio che fu, quello della seconda metà degli anni 80’, in parte immortalato dal fantastico film L’allenatore nel pallone. In quella finale però si affrontavano due squadre che prefiguravano quello che sarebbe stato il futuro: squadre corte, applicazione tattica e durissima preparazione atletica. La cosa più impressionante che ricordo di quel giorno fu uno dei gesti atletici più fenomenali a cui abbia mai avuto la fortuna di assistere; più del gol di Maradona a Mexico 86, un gol che quando il Pibe è partito tutti sapevano come sarebbe finita; più della schiacciata con stacco dalla lunetta di Michael Jordan; più dei sorpassi sulla pioggia di Ayrton Senna. Dalla fascia sinistra dell’Olanda parte un cambio di gioco di quaranta metri; la palla scende precisa, quasi a campanile: tre metri dalla linea di fondo, quasi al limite laterale dell’area di rigore, alla sinistra del portiere. In quel momento il tempo sembrò fermarsi: Van Basten con un impareggiabile eleganza colpisce il pallone a volo; Dasaeev si accorge troppo tardi di quanto sta per succedere e tenta in vano di opporsi a quell’incredibile arcobaleno disegnato dal genio del Cigno di Utrecht. Mi ricordo che esultai, non so perché, in fondo mi importava poco vincesse l’uno o l’altro, ma esultai, partecipe di quel gesto di alta espressione di umana grandezza che fu quel gol: IL gol di Van Basten. Quel tardo pomeriggio giocammo a pallone in cortile fino a tardi, fino a quando non si vedeva più nulla, felici e gasati dall’avere assistito a quella prodezza. A rivederlo adesso, l’attaccante olandese sembra sempre lo stesso. Lui che a causa degli infortuni ha dovuto lasciare il calcio a trent’anni, e che oggi è ancora simbolo di signorilità. Una signorilità dobbiamo dire già rara all’epoca, ma che oggi nello sport, e nel calcio in particolare va sempre più scomparendo. Oggi i gol di Messi e di Ronaldo sono ammirati da schiere di ragazzini pigri che tentano di emularne le gesta alla Playstation e non sul campo da calcio; quegli stessi bambini che magari a diciotto anni, ormai obesi, corrono in palestra a praticare un allenamento ridicolo per una pura funzionalità estetica di dubbio valore, affidati spesso a ciarlatani iperintegrati e lampadati che si fanno chiamare istruttori. Lo sport, fin dall’antica Grecia, è stato sempre una sublimazione mitigata e non di quello spirito competitivo proprio della natura umana, quella parte dell’anima che aspira alla vittoria che Platone aveva ben evidenziato. Dal 900’ in poi è diventato una parte importante nella vita degli uomini di tutto il pianeta. Certo lo sport è cambiato negli anni ed ha creato i suoi miti e le sue leggende, assumendo questi un tratto nostalgico oggi ampiamente dilagante. Compare spesso oggi sulle curve lo slogan: No al Calcio Moderno, slogan che gli abili pubblicitari della nota birra nazional popolare della nazionalnazionale di calcio non hanno esitato populisticamente ad imitare nei loro spot televisivi. Vorrei dire loro una cosa: cari signori il calcio non è cambiato ma è la società ad essere cambiata; lo sport professionistico è tale proprio per questo: perché praticato da professionisti pagati per farlo. Avere una cultura sportiva significa avere praticato uno sport a livello agonistico e conoscere la fatica, l’applicazione ed il sacrificio che hanno fatto quei ragazzi per arrivare dove sono, loro, quei pochissimi fortunati tra centinaia di migliaia di praticanti. Certo non auspicherei aberrazioni quali il basket ed il football americani, che per quanto spettacolari, si fa fatica a distinguere se duri di più la partita o i time out. Non v’è dubbio però che in quegli stadi e quei palazzetti nessuno si sognerebbe di prendersi a sprangate o a coltellate col tifoso avversario. Questo perché c’è cultura sportiva o più semplicemente perché si è andati alla partita dopo una giornata di lavoro e ci si vuole solo rilassare. Il mestiere del tifoso è una cosa che accomuna il Sud America e le città più violente e culturalmente degradate d’Europa; è di alcuni mesi fa la telefonata di Papa Bergoglio al capo ultrà dell’Indipendiente, Il Corvo, per chiedergli di smetterla di ammazzare gente allo stadio. Ci pensate??? “Pronto Corvo?? Sono Io, il Papa: la devi smettere di fare il cretino”. Piuttosto che confidare nell’aiuto di sua santità per cambiare le cose, servirebbe che più giovani facessero veramente sport; che lo stato investisse fondi e realizzasse infrastrutture; che magari le scuole fossero aperte veramente e che magari i mitici prof. di educazione fisica, voraci divoratori di riviste e quotidiani, fossero stimolati a fare meglio e più proficuamente il lavoro per il quale sono pagati. Infine mi rivolgo a te, ex ciccione adolescente; ex ipertrofico proteico postadolescente; tu che dopo avere gonfiato i pettorali seducendo così una cozza travestita da fotomodella; tu che dopo qualche anno hai appeso la palestra e adesso sei ciccione ed ipertrofico assieme; mi rivolgo anche a te, frustrato dei giardinetti; tu che scartavi tutti in cinquecento metri quadri, ma che quando si è trattato di fare il fiato per percorrerne cinquemila ti è mancata la determinazione; mi rivolgo a voi, mentre spegnete la sigaretta dopo aver fatto l’ultimo sorso di limoncello post pranzo domenicale. Prima di bestemmiare il giocatore di turno per non essere arrivato su quel pallone, pensate agli infarti ed alle contratture plurime che vi sareste provocati voi a rincorrere quello stramaledettissimo pallone. Fermatevi per un momento, e pensate a quell’istante infinito in cui si alzò in volo il Cigno di Utrecht, pensate all’infinita poesia che donò al cuore di quei tanti bambini di dieci anni che come me erano una pippa a giocare, ma che continuano a farlo, quando è possibile, per un solo motivo: ci si diverte tantissimo! Infine, per rispondere ai pubblicitari della nota azienda di telefonia mobile nazionalnazionale: il calcio non è di chi lo ama, ma di chi lo gioca. Se tutti amassero il calcio senza giocarlo, se tutti guardassero lo sport senza praticarlo, non avremmo più uno sport.

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