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La Recensione: Birdman

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Ad inizio film, la cinepresa inquadra Riggan Thompson (Michael Keaton) impegnato in un’ascetica meditazione in mutande e sospeso per aria. Basterebbe questo incipit per individuare, fin da subito, il registro che caratterizzerà tutto l’incedere del racconto. Se si volesse definire con una figura retorica il nuovo film di Alejandro Gonzàlez Inàrritu questa sarebbe di sicuro l’iperbole e basterebbe questa scena a diventare summa di tutta la storia, in bilico continuo tra assurdo e sberleffo.
Dopo aver messo in scena il tema della morte fisica e della malattia con le sue opere precedenti, il regista messicano torna negli Stati Uniti senza Guillermo Arriaga e racconta, questa volta, la morte dell’attore in “Birdman (o l’imprevedibile virtú dell’ignoranza)”, film in concorso e d’apertura alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia.

Gli anni 90 sono lontani e con loro gli antichi fasti del successo dell’Uomo Uccello, supereroe dalle ali piumate, che ha dato grande notorietà e ricchezza a Riggan Thompson, grazie ai numerosi seguiti. Ormai sessantenne, l’attore vuole un riscatto per scrollarsi di dosso il pesante ricordo dell’eroe piumato. Decide, così, di allestire a Broadway il rifacimento di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver. La compagnia teatrale è eterogenea e mal assortita, non mancheranno tensioni con un giovane attore vanesio ma dotato (Edward Norton) e la figlia (Emma Stone). In questa girandola di isterismo daranno il loro contributo anche la ex moglie e l’attuale compagna di Thompson. Gli ingredienti ci sono tutti per un probabile e clamoroso fiasco.

I personaggi ruotano intorno a Riggan Thompson, un Michael Keaton in stato di grazia che regala la sua migliore interpretazione in assoluto e che, meritatamente, si appresta a vincere il premio Oscar come miglior attore. Fin da subito non può che tornare in mente l’altro uomo uccello che Keaton interpretò per Tim Burton ad inizio anni 90, quando duettava con Jack Nicholson e Danny De Vito. Oltre ad un’alta dose di autoironia, quella di Keaton è una prova di assoluta devozione al lavoro di Inàrritu che lo tallona nel fitto dedalo dei camerini fino al palcoscenico con rare incursioni fuori dal teatro. E Keaton non si risparmia, facendo dimenticare la consueta fissità della sua maschera d’attore.

Non esiste un’unica trama: esistono almeno tre storie che si intrecciano tra di loro in un sapiente puzzle che rimanda al gusto del racconto corale presente in altre precedenti opere, come in “Babel”. Qui però tutto è amalgamato con la vicenda di Thompson che diventa un viaggio nella mente dell’attore, nelle sue ossessioni, nei deliri di onnipotenza. E il tema della morte, così frequente nella  filmografia di Inàrritu grazie alla complicità di Arriaga, è ancora palpabile e si annida nella testa dell’attore portandolo ad un progressivo sprofondamento nel narcisismo e nelle proprie ambizioni. Come Alfred Hitchock in “Nodo alla gola” o Aleksandr Sokurov in “Arca Russa”, anche Inàrritu gira con un unico piano sequenza, corretto dal digitale che gli permette di cambiare spazio e tempo con estrema fluidità. Il modo in cui la camera si sposta da un punto all’altro è di sicuro fascino e merita una seconda visione per apprezzare meglio i dettagli. E questa fluidità diventa funzionale ad una narrazione che sembra avere come principale obiettivo quello di stupire ad ogni costo lo spettatore. Il ritmo, rotto e sincopato, è scandito con coerenza da una colonna sonora di sola batteria, dove anche lo stesso batterista viene “impallato” dal movimento di macchina. Questo aspetto funziona soprattutto nella prima parte in cui sono da annoverare almeno un paio di scene memorabili: quella della conferenza stampa tenuta nel camerino con annessa satira della superficialità di molta critica e quella della corsa in mutande in Time Square.

Altre volte però questa volontà di sbalordire lo spettatore rimane fine a se stessa e inutile (come lo stesso finale) e tale eccesso porta un senso di ridondanza unito al desiderio di fermare la corsa della cinepresa. Un difetto che rischia di produrre un’opera dalle molte ambizioni (si vuole parlare della morte dell’artista morale e materiale, del divismo e anche del ruolo di internet e dei social media) e senza una vera profondità. Al netto di queste imperfezioni, “Birdman” è molto godibile e diventerà un classico. La sceneggiatura gioca a confondere le carte e a tenere in parallelo i due piani narrativi, quello reale e quello immaginato da Thompson fino alla prevedibile fusione. E la fuga nell’immaginazione dell’attore diventa un riscatto di fronte allo scetticismo di tutto il mondo. Un riscatto che porterà la maschera di Thomson/Keaton ad attraversare il sospirato passaggio dall’essere solo una celebrità all’essere un grande attore.

 

Fonte: Ondacinema.it

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