Ok, i trentenni italiani sono nella merda. Ma ora possiamo smettere di piangerci addosso?

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La situazione è questa: mi hanno chiesto di scrivere qualcosa in risposta alle voci preoccupanti che girano ultimamente, forse accentuate da una discreta pioggia di merda da parte del Governo Renzi su categorie umane politicamente irrilevanti tipo “i trentenni”, a cui vengono compromesse cose non ancora esistenti tipo “il futuro”.




 

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Ci tengo a specificare che l’hanno chiesto a me perché sono praticamente l’unica trentenne presente in questa redazione. Trent’anni nuovi di zecca comunque, compiuti da pochissimo, e che già comportano una responsabilità. Stiamo scherzando? Chi sono io per parlare a nome di una generazione?

“Non sono un simbolo di una generazione, racconto solo parte di me.” Quest’ultima frase non è mia, ma di Zerocalcare, che l’aveva pronunciata in un’intervista della Stampa dello scorso marzo. Sempre la Stampa, in un’altra intervista pubblicata in questi giorni e molto condivisa online, gli attribuisce la frase: “La mia generazione è stata tagliata fuori da tutto.” In questo modo, Zerocalcare si fa carico di un discorso di cui, che lo voglia o no, evidentemente un po’ simbolo è—altrimenti non verrebbe interpellato in questo senso e, soprattutto, il suo pensiero non verrebbe condiviso da chi si sente chiamato in causa.

 

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Il suo discorso viene affrontato così: “Questa è una generazione che nella maggior parte dei casi non riesce a fare il lavoro per cui ha studiato. Ho amici che si sono laureati in Biologia e insegnano nuoto, in Psicologia e fanno le babysitter, in Storia e fanno i camerieri. E comunque non basta. Questa è una generazione generosa, che si è dannata l’anima per trovare un posto nel mondo e ha visto tradite le sue aspettative.”

Il ragionamento, ridotto ai minimi termini, è più o meno questo: “Ci hanno tolto tutto, merde, ma qualcosa, tutti insieme, dovremmo inventarci.” Zerocalcare non è il primo né l’ultimo a farlo, ed è un tema di cui abbiamo scritto anche qui. Il problema, però, è che ragionando in questo modo si rimane pericolosamente ancorati a strutture semantiche e lessicali che appartengono proprio a quello status quo che dovremmo sovvertire, e il cambiamento passa inevitabilmente dal linguaggio. “La mia generazione è stata tagliata fuori” (che l’abbia detto effettivamente lui o che sia un effetto-titolo), grammaticalmente, prevede che questa generazione non sia il soggetto ma l’oggetto, il complemento di termine che subisce l’esclusione da quel tutto a cui ambiva, e “Ha visto tradire le sue aspettative” è un costrutto retorico remissivo, nel senso che rimette le responsabilità nelle mani di terzi.

 





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Se cambiamo prospettiva, si potrebbe considerare che non sono le nostre speranze a crollare sotto il peso di una classe politica “che ci ha portato fin qui,” ma è questa classe politica che è diventata talmente grottesca e caricaturale da mostrarci il fianco. Se c’è una cosa che caratterizza senza dubbio la nostra generazione è che, nel bene e nel male, non riusciamo a stare zitti. Abbiamo i mezzi per non stare zitti. Per questo è necessario che ci armiamo di nuovi linguaggi per sottolineare, criticare e distruggere in maniera sistematica il ventre molle del sistema concettuale che ci ha schiacciato. Continuare a concedere ai vecchi concetti il potere di passivizzare il nostro linguaggio non ci permetterà di ricominciare secondo nuovi termini.

In questo senso, la nostra generazione ha una fortuna, ovvero, anche solo per il fatto che i vecchi sono diventati davvero vecchi, in qualche modo è fisiologicamente necessario sostituirlianche perché la cultura, le arti e i linguaggi espressivi hanno subito un’accelerazione in ogni verso, e i canoni del passato non sono più adatti a starci dietro . E questo vale, ovviamente, anche per i linguaggi antagonisti.

 

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Proprio ieri su Noisey abbiamo pubblicato un’intervista al musicista psichedelico Lino Capra Vaccina, che a un certo punto parla di politica e di come un determinato tipo di sovrastruttura ereditata dalle ideologie, quella basata sul dualismo e sull’esclusione, sia il reale nemico da combattere. Ora: se trascendiamo un secondo dalle questioni di welfare, si può cercare di pensare questa condizione come il terreno fertile per una fluidità concettuale, e di conseguenza sociale, che tocca a noi sviluppare. Come dice il professor Jeffrey J. Cohen nella bellissima lettera all’artista transessuale Elysia Crampton, serve “un mondo più generoso,” ossia un mondo in cui si superino le barriere e le distinzioni che ci hanno incatenato e pietrificato finora.

A volte penso che il più grosso limite sia che non ci siamo svincolati dalla convinzione che un attestato di laurea debba necessariamente portare a una carriera precisa, o che un insegnante di nuoto che ha studiato psicologia non possa dare una nuova interpretazione al proprio lavoro, crearsi una strada che esca dalle aspettative che qualcun altro ha tradito. O ancora, che sia produttivo combattere con lo stesso linguaggio antagonista dei nostri padri, che in molti casi ha ancora la stessa estetica, lo stesso contenuto e la stessa struttura teoretica di quello della generazione da cui stiamo scappando.

Pretendere che a pagarci la pensione siano le stesse istituzioni che tentiamo di combattere tirando solo deboli pugnetti è una recriminazione infantile e improduttiva. Dovremmo invece iniziare a costruirci gli strumenti per rifiutarle in tronco, quelle istituzioni.

 

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Fonte: http://www.vice.com/

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