Blackstar: la recensione dell’ultimo album di David Bowie

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Quando pensiamo a David Bowie, non è raro incrociarne la figura con termini altisonanti, dalla genialità al coraggio, una volta tanto usati con cognizione di causa. Complice una serie di avvenimenti non sempre fausti (tra cui un intervento al cuore nel 2006), negli ultimi anni e più specificatamente dall’uscita nel 2013 di The Next Day, le sue già innumerevoli qualità hanno iniziato a tingersi di nuove sfumature, una sincerità dolorosa, intenzionata non a rivelare dettagli inediti e morbosi della sua vita privata, bensì a mostrare l’avvenuta aderenza tra l’uomo e l’artista. Fuori dalla camera degli specchi, dismessi i panni dei tanti personaggi dietro cui si è barricato in 54 anni di carriera, Bowie ha dunque deciso di morire e rinascere, lui per primo, con un album definitivo, finale, che non a caso viene pubblicato nel giorno del suo compleanno. “We were born upside down, born the wrong the way round” canta nella parte finale del brano d’apertura, title track nonché singolo voluto fortissimamente dal musicista, al punto da ridurne la durata a 9 minuti e 58 secondi per evitare il veto di iTunes che non permette ai pezzi di lunghezza superiore ai 10 minuti di essere venduti individualmente. Il messaggio, sottolineato dal video di Johan Renck che lo accompagna, arriva dritto al cuore: il Maggiore Tom è morto, non mi appartiene più. Io sono David Bowie, la somma dei tanti me, sono la Stella Nera. La traccia, vera e propria suite costituita da due sezioni principali e un’improvvisazione centrale a fare da collante, è elettronica, free jazz, blues e disco, follemente, miracolosamente insieme. Un capolavoro nel capolavoro. Gli ultimi battiti di Blackstar rallentano il passo prima di spegnersi del tutto, rendendo l’aggressione di Tis A Pity She Was A Whore ancora più sorprendente. La canzone presenta un suono gonfio al punto da generare un’esigenza quasi fisica di sottrazione che però non giunge, rendendo l’aria carica di tensione. I cori, volutamente schiacciati, richiamano il passato in modo tuttavia inafferrabile, sorta di eco spettrale del Duca che fu. Insieme a Sue (Or in A Season Of Crime), Tis A Pity… è l’episodio che due anni fa – e in forma differente – confuse un po’ tutti. Eccellente scarto da The Next Day o possibile direzione futura? La risposta che ci viene fornita oggi è che niente può rimanere lo stesso talmente a lungo.

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Presente anche nel recente musical dallo stesso nome con Michael C. Hall di Dexter a dare nuovo corpo e storia a T.J. Newton, l’alieno de L’uomo che cadde sulla terra, Lazarus è invece una ballata dolente, in odore di glam, vizio e riscatto (“I’ll be free just like that bluebird”), a cavallo tra Hedwig and The Angry Inch e Lou Reed (periodo Transformer, neanche a dirlo). La coda vede i contrappunti chitarristici tramutarsi in strappi furiosi, lasciando intendere che la libertà, cari uccellini, ha un prezzo. Non così evocativa ma altrettanto potente la nuova versione della già citata Sue; il tempo dnb – piccola meraviglia! – è la base ottimale per interventi al microfono al limite dell’improvvisazione e che anche dopo ripetuti giri non perdono in energia e spontaneità. La voce riverberata in Girl Loves Me, di contro, si adagia su un groove disteso, quasi lisergico, supportato dal Polari, slang ormai desueto che ebbe vasta diffusione nelle fiere, nei teatri e, più concretamente, all’interno della comunità gay (Morrissey lo utilizzò per Bona Drag e Piccadilly Palare). È però con i due brani posti in chiusura che Blackstar concreta il bisogno di essere ascoltato per intero. Un beat electro, scheggia impazzita, unisce indissolubilmente Dollar Days e I Can’t Give Everything Away. Morbidezza nei suoni e asperità nella voce il primo, ripresa (consapevole?) di Soul Love il secondo. È l’addio definitivo, quello in cui anche il personaggio con cui più spesso lo abbiamo identificato viene divorato dal proprio creatore, ché oggi c’è spazio solo per lui, David Bowie, la Stella Nera. Meravigliosa e mortale.

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Fonte:http://ilmucchio.it/

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