Cinema: La Madre

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Sono trascorsi cinque anni da quando le piccole Victoria e Lily hanno perso i genitori in seguito a un raptus di follia del padre, che, sconvolto dalle terribili conseguenze della crisi economica, ha compiuto una strage. Regredite a una condizione primitiva, incapaci di articolare frasi di senso compiuto e denutrite, le bambine vengono ritrovate tra le assi di un cadente rifugio montano e affidate alla custodia dello zio e della sua compagna (una splendida Jessica Chastain, tatuata rockettara), nella speranza che il neonato nucleo familiare possa divenire per loro un rinnovato punto di equilibrio. Ma gli strascichi di un legame materno atavico e morboso, che sembra ossessionare le bambine, interverrà a fugare qualsiasi ipotesi di stabilità.

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All’inizio c’è un inquieto movimento che si allunga sul ventre nevoso di una montagna, una presenza che si nega allo spettatore e che aleggia oltre i bordi dell’inquadratura, che “non tocca per terra”, come dice sorpresa la piccola Victoria, e sorveglia ossessiva le piccole protagoniste di questa macabra fiaba. Madre è uno spirito smanioso e senza pace, un morbo che viola la sacralità dell’istituzione familiare e si insinua con la forza parassita di una cancrena nelle pareti di casa, fino a divorarle, fino a eruttare dalle mura domestiche in una delle scene più inquietanti dell’opera. E se la tradizione dell’orrore – sin dai gatti neri di Poe – ha saputo vedere ben al di là della semplice funzione portante dei muri casalinghi, facendone la sordida alcova di mostruosità occultate agli occhi di ignari residenti (dalle escrescenze che palpavano una Catherine Deneuve sull’orlo della follia nelle allucinazioni polanskiane, ai cadaveri ammassati del brutto “The Haunting in Connecticut”), il topos dell’intruso che alberga nelle pareti richiama, qui, la metafora di una violazione più intima, che mira a sradicare la ricostituita unità familiare.

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In questo ardito ribaltamento della figura materna, mostruosa creatura che diviene ostacolo all’idillio domestico, si palesa quel guizzo di creatività che deve aver esaltato Guillermo Del Toro al punto da imprimere il suo sigillo produttivo sul film di Muschietti, già autore dell’apprezzato corto dal titolo emblematico “Mama”, in cui si ravvisano in nuce le coordinate stilistiche dell’esordio, improntato a un amore classico per il piano sequenza e a una colta vena citazionista, che moltiplica i riferimenti e sa strizzare con garbo l’occhio al cultore del genere, il quale non mancherà di indovinare nelle contorsioni artritiche di Madre un richiamo alla serie “Ju-on” di Shimizu (autore anche del debole remake americano “The Grudge”). Né ciò è tutto, perché l’incombere produttivo di Del Toro guida lo sguardo dell’esordiente Muschietti in territori che alludono all’esperienza di “The Orphanage”. Dell’opera di Bayona, infatti, si recuperano l’eleganza stilistica, l’attenzione peculiare per il mondo dell’infanzia e le atmosfere rarefatte, senza, però, che il carico psicologico ottunda la storia al punto da impedire gli agognati e salutari balzi sulla seggiola, acme di ogni storia dall’orrore che si rispetti.

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In questo senso “La madre” è un film che percorre solo apparentemente le direttive coatte del genere; al contrario, in barba al dilagare imperante di abusati modelli che rassicurano col piacere della ripetizione, il regista argentino non si limita a comporre una variegata antologia dell’orrore contemporaneo, ma sfalda consapevolmente i generi, conglobando le proprie ossessioni cinematografiche nelle architetture gotiche di un racconto, in cui insoliti spunti melodrammatici scivolano in attacchi deliberati alle coronarie dello spettatore. Nonostante la scarsa esperienza nel lungometraggio, Muschietti dimostra di conoscere il mestiere e riesce a impostare il terrore entro i contorni dell’inquadratura, sfruttando le angolazioni di ripresa o le qualità luminose dell’immagine, ma troppo spesso pare sfiduciato dalle possibilità espressive della macchina da presa e, timoroso di mancare l’effetto, correda il ricco impianto visivo con facili (troppo facili) distorsioni sonore ed esplosioni di decibel, che non risparmierebbero dallo spavento neppure chi stesse guardando “L’albero azzurro”.



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Nonostante ciò, “La madre” è tutt’altro che il sapido rimasuglio di una tradizione fiabesca in estinzione, come qualcuno ha affermato. Si tratta piuttosto di un’opera tesa a riscattare l’insolita prospettiva di un fremito d’orrore tardo-romantico, nella tradizione di Shelley o di certo Poe (più dalle parti di “William Wilson” o “Ligeia” che de “Il pozzo e il pendolo”), di una sensazione bocciata e messa al bando, perfino ridicolizzata dall’odierno divampare del grand-guignol. In quella rupe scoscesa dove si consuma il tragico (?) epilogo di una vicenda che sembra emersa dalle pagine di Walpole, rivive un’intera tradizione letteraria e cinematografica, che in tempi recenti ha stimolato un filone dell’horror iberico e di cui possiamo riconoscere gli influssi nel capostipite “Il labirinto del fauno” dello stesso Del Toro.

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Il fatto che gran parte della critica abbia emarginato questo aspetto, includendo la pellicola nel novero degli horror a deriva psicologica, ha fatto sì che si abbattesse sul film la mannaia di giudizi sommari e fuorvianti, che hanno fatto oggetto di comune rimprovero l’estetica “da videogioco” (sic) su cui è modellata la figura di Madre. Plasticosa e grottesca, con i capelli untuosi e aleggianti (come quelli, per intenderci, della defunta Willa Harper mescolati alle alghe del fiume nel capolavoro di Laughton) e le scomposte movenze da danzatrice di batoh, nelle sue forme esasperate e apertamente fasulle, si manifesta l’anelito di un’opera che vorrebbe richiamarsi alla tradizione vittoriana, ma, consapevole di quanto effimera questa scelta possa apparire nell’era 3.0, sceglie di dichiarare apertamente l’anacronismo nei bordi di un’immagine visibilmente artefatta e ambigua. Come lo stesso finale, eccellente slittamento di generi, in cui la tematica del rovesciamento giunge al parossismo e, in un’esplosione melodrammatica degna del più florido neorealismo d’appendice, indulgiamo alla compassione per lo strazio di Madre, anzitempo sciolta dall’affetto dei figli.

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Pur mosso da un coro di lodevoli ambizioni, “La madre” non riesce, purtroppo, a catalizzare come vorrebbe l’espressione di un cinema di genere maturo e consapevole, capace di confrontarsi con la tradizione, senza subirne i facinorosi ricatti commerciali. E ciò, come si è detto, a causa delle incertezze di una regia stimolante e creativa (capace di azzeccare un paio di scene magistrali), ma spesso ancorata alle secche del “vorrei, ma non posso” e troppo timorosa per astenersi dal perseguire certi radicati cliché. Non mancano, tuttavia, motivi per sperare che, col tempo, Muschietti abbandoni le esitazioni dell’esordio e possa sviluppare in proprio quel talento, di cui ci limitiamo, per ora, a segnalare le evidenti tracce in un film che, pur con i suoi limiti, sa muoversi con coerenza nel limbo dell’intrattenimento onesto.

 

Fonte: Ondacinema.it

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