Stracult: Povero Cristo

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La vita di Cristo/Reitano tra cromatismi accesi e scenografie strampalate



Bei tempi quelli in cui potevano esistere film come Povero Cristo, delirio teologico in piena regola interpretato da un giovane Mino Reitano (nei panni di Giorgio/Gesù) e diretto dall’allora esordiente Pier Carpi, proveniente dal mondo dei fumetti e dell’editoria esoterica. Insomma, l’equazione è di quelle da capogiro: fumettaro convertito al cinema, più cantante di musica leggera trasformato in attore, più rappresentazione della vita di Cristo in chiave moderna. Uguale: astrattismo diffuso, cromatismi accesi, scenografie strampalate ma assolutamente incisive (tra alberi coperti di pezze e interni futuristi) e sequenze immaginifico-surreali che restano impresse nel cervello. La storia è quella di un poveraccio che, pagato da un riccone per trovare le prove dell’esistenza di Dio, seguirà le stesse tappe della vita di Gesù.

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Chi, oggi, scommetterebbe su un prodotto simile che già sulla carta puzza di guazzabuglio e incoscienza pura? Meglio così, verrebbe da dire, d’altronde Povero Cristo non è altro che un film annientabile in due parole, di quelli che ci si può ridere sopra rumorosamente, come le scimmie. Eppure, deragliando dai binari del consentito, fuoriuscendo dai parametri del “bellino” e del “bruttarello”, Pier Carpie soci sfondano un muro: non solo mescolano l’alto con il basso (già visto), ma proprio non fanno distinzione tra le due cose. Povero Cristo raggiunge vette da cinema d’autore e poi sprofonda in baratri di insondabile cialtroneria, riesce a essere didascalico dove lo si vorrebbe ermetico ed ermetico dove lo si vorrebbe didascalico. E il bello è che, anche il suo regista, intenzionato a realizzare un film popolare e antintellettuale, si ritrova a fare scelte assolutamente impopolari e continuamente sbrodolanti nell’intellettualismo, generando un sano, puro e gustosissimo cortocircuito.

Povero Cristo è, quindi, un’opera libera, un vero e proprio assalto alla logica artistica, che trova il suo meglio proprio nei momenti di contraddizione, dove il profano vira al sacro confondendo le intenzioni e l’intellettualismo cerca di mostrarsi antintellettuale (come nel lungo finale che, dopo averci preparato a tutt’altro, sviscera banalità a rotta di collo in un colpo di scena al contrario). La cosa ancora più incredibile è che tutto ciò risulta assolutamente in linea con la morale del film, secondo la quale bisogna trovare Dio all’interno dell’uomo (e quindi l’alto nel basso, il sacro nel profano, l’illogico nell’intellettuale). Non sappiamo quanto Pier Carpi fosse cosciente di tutto ciò, molto probabilmente non lo era affatto, ma non è questo l’importante: le intenzioni contano zero, quel che conta è solo il risultato.

 

 

Fonte: http://www.bizzarrocinema.it/

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