Saluta Andonio: differenze tra trash e kitsc!

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La coerente rozzezza mostrata del trash, più onesto del kitsch che cerca di confondersi nella cultura alta

 

 

Quest’articolo vuole fungere da prefazione a un futuro approccio con l’universo del “trash”, una specie di breve prontuario problematizzante per tentare di riconoscere il fenomeno, piuttosto recrudescente nel panorama della cultura di massa odierna, e inquadrarlo nella giusta misura, limitando le inevitabili infiltrazioni pregiudizievoli.
Ecco cosa avrebbe potuto dire Agostino di Ippona, in una versione aggiornata delle sue “Confessioni”, sul concetto di “trash”: “Che cos’è insomma il trash? Lo so finché nessuno me lo chiede; non lo so più, se volessi spiegarlo a chi me lo chiede”. Ma chissà se avrebbe azzardato altresì un’ulteriore definizione di questa categoria in termini di “distensio animi”, come invece mi appropinquo a fare in questo spazio testuale con il supporto giocoso di strumenti filosofico-psicanalitici.

Procediamo con ordine. Un’utile distinzione da poter compiere in via preliminare, e che ci aiuti anche a inoltrarci nel problema, è quella tra “trash” e “kitsch”, vocaboli spesso confusi nel linguaggio comune, ma in realtà molto distanti. Ad esempio, un neomelodico tout court è sintomatico del “trash”, mentre un neomelodico che utilizza come base del proprio racconto canoro un midi della “Sonata al chiaro di luna” già si avvicina di più al “kitsch”, senza però incontrarlo; oppure, se un tour domenicale in un centro commerciale è materiale idoneo per l’allestimento di un “trash pride”, un centro commerciale edificato con effetti architettonici classicheggianti finalizzati allo shock visivo (finalizzato a sua volta a incrementare la fantasmagoria delle merci in vetrina) è senz’altro “kitsch”.

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Il “kitsch”, infatti, essendo mimetico per attitudine, sovente naviga in incognito nel mondo dell’arte, presentandosi come spudoratezza citazionista, neoclassicismo parossistico (e stucchevole) o avanguardismo non ammaestrato; esso è strutturalmente disonesto rispetto alla cultura alta poiché o vi si annida tentando di confondersi o finge di ricollocarla in contesti del tutto respingenti. Il “trash”, al contrario, detiene un suo orgoglio anti-intellettuale fondato sulla rozzezza ricercata e sulla facoltativa (se non addirittura aborrita) qualità delle proprie espressioni; esso è più onesto intellettualmente perché rivendica il proprio carattere pecoreccio senza elemosinare un ticket per accedere all’alta cultura. C’è persino chi ha intellettualizzato il trash, in un contesto di culturalizzazione massiva di tutto ciò che passa il mercato e in funzione – paradossalmente – antintellettualistica, come fenomeno commerciale che si esibisce spavaldamente in quanto tale e come riflesso volontaristico di una cultura popolare dinamica: una sorta di neofolk munito di occhiali da sole griffati, poco inclini alla sobrietà e molto propensi all’ostentazione del brand; in soldoni, un folk coatto.

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È giusto evidenziare, a questo punto, come anche la grande arte d’avanguardia abbia sentito l’esigenza di misurarsi col “trash”, di dialogarci in senso letterale: Duchamp, Manzoni e Schwitters (per citarne alcuni) hanno messo in crisi ogni ontologia dell’arte, fondando l’intervento artistico non tanto sulla qualità (estetica) dell’opera, ma sullo spazio da essa occupato (il contesto museale), servendosi, tra le altre cose, di accumulazioni di rifiuti organici e no, estrapolazioni risemantizzanti (e sublimanti?) di oggetti quotidiani connessi alla sfera dell’infimo, eccetera…

Ma cosa c’è di tanto accattivante nei vari cinepanettone, soap opera con colpi di scena metafisici, fiction poliziesche caratterizzate da opinabili tagli comici e prestazioni attoriali scadenti, tronisti, rotocalchi, apostolati di Elvis e atletismi combinati con musiche latino-americane?

Cosa accomuna i passaggi contenuti in questo elenco multicolore e la matericità escrementizia rivisitata da un certo avanguardismo?
Basta la mera e totale trascuratezza teorica legata ai summenzionati episodi del “trash” a spiegarne il potenziale seduttivo?

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In un certo senso, una risposta affermativa all’ultimo quesito posto andrebbe a equipaggiare un tentativo parziale di spiegazione: infatti, mentre per l’avanguardismo il discorso è, forse, più complesso, poiché si oscilla da un’ardita e consapevole sublimazione delle ecoballe a un abbassamento sacrilego della funzione istituzionalizzante dell’arte operata dal contenitore museale, per quanto concerne il “trashume” contemplato in virtù di un inconsapevole cattivo gusto le cose stanno diversamente. In tal senso, credo che un evento ormai modaiolo come il “trash party” possa esplicare in modo efficace la trasversalità edonistica del fenomeno: il “trash”, per inclinazione, non solo non complessa il proprio pubblico, ma ne sdogana quella leggerezza goliardica faticosa da accettare soprattutto in certi ambienti cultural. Si può dire che “il trash party”, alla stregua di un rituale dionisiaco contemporaneo, consenta di esorcizzarsi dalle abituali sovrastrutture mentali all’interno di uno scenario di accettazione collettiva, suggerendo la possibile destinazione liberatoria del “trash” attraverso un’euforia condivisa avente per protagonista l’osceno: in un senso etimologico popolare tale vocabolo indica proprio ciò che muove fuori dalla scena, ciò che non si può mostrare su un palco (sociale). Il “trash party”, in sostanza, come una sorta di Wikileaks situazionale, rivela, tramite filtri ludici, le dietrologie collettive svincolate da ogni barriera valoriale ufficiale volta a criminalizzare la pura frivolezza. Ed è proprio in virtù di queste ultime considerazioni che ho parlato del “trash” in termini di “distensio animi”, in un senso non agostiniano, come un lasciarsi andare dell’anima, come presa di coscienza vitalistica del suo essere impastata anche con l’attrazione per stimoli privi di (o di dubbia) qualità.

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In conclusione, il “trash”, come pausa da quel Sé ritenuto socialmente idoneo, mantiene un suo ruolo terapeutico; tuttavia, come condizione esistenziale perpetua, proprio per il suo legame quintessenziale con incoscienza e bad taste, andrebbe preso decisamente con le pinze.

“Oggi il vero trash sono gli stessi oggetti “belli” dai quali siamo continuamente bombardati da tutte le parti; di conseguenza, l’unico modo per sfuggire al trash è mettere il trash stesso nello spazio sacro del Vuoto”.

 


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