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Diario Australe: I soldi crescono sugli alberi. In Argentina.

La piaga del cambio nero di valuta in Argentina è una delle caratteristiche principali dell’economia del Paese. L’Argentina è un centro di smistamento continentale di capitali sporchi, che vengono “lavati” nei retrobottega degli uffici di cambio argentini e poi riesportati per essere debitamente occultati. Il nostro reportage prova a spiegare come e perché questo fenomeno si sia prodotto e continui ad essere.

Li chiamano arbolitos.
Alberelli.
Piantati come alberi dalle nove del mattino fino alle venti in alcune delle strade centrali di Buenos Aires. La prima volta che li vedo è su calle Florida, nei pressi dell’Obelisco, uno dei punti di riferimento topografici principali di questa metropoli enorme.
Li sento in continuazione emettere monotoni il loro verso, molto più simili a canarini che ad alberi: «Cambio, cambio, cambio!»
Come un mantra.
Sono i ragazzi che procacciano clienti per la grande macchina del cambio nero di valuta in Argentina, probabilmente la maggiore risorsa economica, ma anche la maledizione più grande, di questo paese sempre in ginocchio, e sempre sul punto di rialzarsi.
Da circa due anni, il mestiere di arbolito è diventato molto appetibile, da quando si è creato, di fatto, un mercato di valuta parallelo a quello ufficiale. Tollerato, anzi praticamente incoraggiato, dal governo.

Prezzi del cambio "ufficioso" in bella vista a Calle Florida

Prezzi del cambio “ufficioso” in bella vista a Calle Florida

Il mio principale contatto nel mondo degli arbolitos è un ragazzo colombiano di venticinque anni, Maurizio. Lo conosco come tutti, cambiando denaro per strada, evitando le agenzie di cambio ufficiali, che offrono un tasso ridicolo, non commisurato alla realtà economica. Negli sportelli di cambio ufficiale, un euro vale dieci pesos. Per strada, anche sedici. Il dollaro ufficiale, otto, mentre per strada, anche dodici. Logico che nessuno o quasi sia così stupido da usare il cambio ufficiale.
In una settimana di frequentazione Maurizio a poco a poco si rilassa e inizia a raccontarmi la sua vita.
Seduti sui marciapiedi ad osservare la gente, tra un «cambio cambio cambio» e una corsa con i turisti al punto di rifornimento più vicino, tra una breve pausa pranzo e una birra, mi racconta come la vede.

«Amico, io sono venuto qui otto anni fa. Ho lasciato il mio paese, la Colombia, perché lì, con tutto il rispetto, è peggio che l’Iraq o la Siria. La vita umana non vale niente, e quelli del narcotraffico ammazzano la gente per qualsiasi motivo.
Pure io ci ho lavorato nel narcotraffico. Stavo nei convogli che portavano la cocaina. Pagavano abbastanza bene. Però si moriva.
Così sono venuto qui, l’idea era studiare turismo. Ma ho lasciato perdere, costava troppo. Io devo mantenere la famiglia. Per sei anni ho fatto qualsiasi lavoro capitasse: lavapiatti, cameriere… Poi, un giorno, camminando su questa stessa calle, vedo un tizio che grida per strada cambio cambio cambio. Mi sembra vestito bene. Gli chiedo che lavoro faccia. Perché qualsiasi lavoro sia, lo voglio anche io. Sta per strada e non si deve spaccare la schiena in cucina o a servire ai tavoli. Era un arbolito. Mi porta dal suo patrón, il capo. Gli ho detto che volevo il lavoro e quello mi ha preso».

Detta così, Maurizio, sembra una storia da film di Hollywood, e dei peggiori. Il sogno americano. Arrivi dal nulla e la Grande America ti offre un futuro. Ma questa è una America minore, l’America che in genere non passa nelle pellicole di Hollywood. Qui non c’è lo zio Sam, né Will Smith ne La ricerca della felicità. Qui per la gente come te c’è il salto dalla miseria nera a una grigia.

«Sono due anni che faccio questo lavoro, e ci vivo io, mia moglie e i due figli. Viviamo in una villa di Buenos Aires, quelle che in Brasile chiamano favelas, le baraccopoli ai margini delle metropoli. Inizio a lavorare alle nove, fino alle venti, o anche di più. Sei giorni a settimana.
In teoria ho una piccola pausa per il pranzo, ma è meglio non battere la fiacca, qui c’è sempre qualcuno che ti controlla. E se non porti abbastanza clienti ai patrones poi finisce che ti fanno fuori. Però io in genere me la cavo bene, coi turisti ci so fare, perché alla fine un po’ di università l’ho fatta e ho studiato come ci si prende cura dei clienti.
Qui vengono tutti. I turisti, che portano gli spiccioli. E quelli che hanno qualcosa da nascondere. Chi deve riciclare il danaro. Quelli che hanno affari sporchi in Argentina, ma non solo. Tutto il Sudamerica: vengono qui e “lavano” il denaro. Comprano dollari e li fanno sparire all’estero illegalmente, nei paradisi finanziari.
Per quelli che vogliono comprare almeno 10.000 dollari ci sono canali privilegiati, li portiamo nei lugares clandestinos, la cui ubicazione è nota a pochi».

Ok, ma il cambio chi lo gestisce?

«E chi vuoi che lo gestisca, amigo? Le stesse officine di cambio! Dal lato della porta principale accolgono i clienti per il cambio ufficiale, ma dalla porta di dietro arriviamo noi. E facciamo gli affari».

E i controlli?

«Quali controlli? Io credevo che in Colombia la polizia fosse corrotta. Ma qui… qui, amico mio, la polizia è la più corrotta del mondo. Si vendono per qualsiasi cifra. Ma non li vedi, agli angoli delle strade? Ci osservano, sanno che siamo qui, ma semplicemente chiudono gli occhi. La fi (nda: così qui chiamano la polizia fiscale, sorta di Guardia di finanza) in teoria combatte queste attività, ogni tanto fa le retate, confisca denaro illegale. Ma è tutto un teatro, a beneficio della tv.
Qualche settimana fa a uno dei patrones hanno sequestrato 400.000 pesos (circa 40.000 euro al cambio ufficiale, nda). Tempo due giorni, sono tornati di nascosto e ce li hanno restituiti. E d’altra parte come potrebbe essere altrimenti? Al vertice di questa macchina del cambio nero ci sono personaggi vicini al governo, chi vuoi che li tocchi? Anche uomini di fiducia della presidentessa. Una volta un tizio è stato arrestato qui, poi è saltato fuori che aveva amici troppo in alto per stare al fresco e lo hanno rilasciato.
Lo sanno tutti che il governo trae vantaggio da questa situazione, specula sul cambio. Mantiene l’inflazione sotto controllo a livello ufficiale, ma poi… Lo sai come si chiama il dollaro clandestino? Dollaro blu. Il perché non lo so. Però so che anche la valutazione del dollaro blu è decisa dal governo. La puoi trovare su internet, è ufficiale anche quella. Ti rendi conto? Se questa è la situazione, a noi cosa possono fare? Personalmente, a me la polizia mi avrà fermato almeno una decina di volte per i controlli, perché sono clandestino. Mi fanno una multa, redigono un verbale e poi mi dicono di non firmarlo. E se non firmi, non ha valore. Gli dai un po’ di soldi e vanno via».

Ma quanto si guadagna?

«Ci sono tre livelli. Noi che siamo gli arbolitos e lavoriamo per strada normalmente prendiamo uno stipendio fisso che oscilla tra i trecento e i quattrocentocinquanta pesos al giorno (trenta-quarantacinque euro al cambio ufficiale), poi ci sono i patrones, che ufficialmente lavorano come giornalai, hanno i chioschetti su calle Florida, hai visto quanti ce ne sono? Alcuni invece gestiscono dei negozi. Tutte attività di facciata. In realtà lavorano come intermediari tra noi e i clienti da un lato, e i padroni delle mesas de cambio (gli uffici di cambio illegali, nda) dall’altro. Il guadagno dei patrones è nel margine di differenza tra il prezzo ufficiale del dollaro blu e il prezzo che viene fatto a chi compra. È un gioco al ribasso. Con te non hanno vita facile, perché prima di venire controlli il cambio su internet. Ma sai quante volte sono venuti turisti sprovveduti che volevano da noi il cambio ufficiale, perdendo così una marea di soldi? I Francesi sono i più ingenui di tutti. Pensa che sono capaci di venire da noi per strada, chiedere il cambio ufficiale… ed esigere anche una fattura. E noi? Noi gliela facciamo pure, e quando se ne vanno gli ridiamo dietro. All’ultimo livello ci sono i padroni delle mesas de cambio. Quelli fanno i soldi sul serio, accumulano dollari e poi li rivendono con forte guadagno a quelli che ti dicevo prima, ai delinquenti, ai narcotrafficanti, agli evasori fiscali, a tutti quelli che hanno denaro da far sparire. È un gioco in cui chi ha soldi ne fa sempre di più.  E poi i dollari spariscono. Un po’ vanno nelle tasche dei ricchi qui in Argentina, ma tanto finisce fuori, nei conti esteri, di proprietà dei peggiori ladrones del Sudamerica… e non solo».

In effetti, durante i giorni trascorsi insieme a Maurizio, qualcuno di questi galantuomini l’ho potuto vedere in azione. Un boliviano, ad esempio. Non faceva mistero di fare affari col narcotraffico. Aveva pesos per un valore di 5.000 dollari da cambiare. Maurizio mi ha detto che è un cliente fisso. Viene e cambia sempre 5.000 dollari. È un pesce piccolo, piccolissimo.
Gli affari veri non si fanno per strada, ma nelle mesas de cambio. Però Maurizio è contento, perché il boliviano gli ha lasciato una propina, una mancia, abbastanza alta.

Dei turisti che ho visto io, quasi tutti sono venuti con qualche centinaio di euro o di dollari. Solo uno è arrivato con 3.000 euro da cambiare.
Un francese, ovviamente.
Però Maurizio mi racconta che la persona che ha cambiato la quantità di denaro più grande è stato un argentino, che ha comprato 150.000 dollari in contanti. Eppure, persino lui, non era che un pezzente al confronto di quelli che fanno affari nelle mesas de cambio.

Arrivato alla fine del mio soggiorno a Buenos Aires, saluto Maurizio, nella solita strada. Circondati da banche nei cui uffici secondari vengono consumati affari per milioni di dollari. Mi ricordo quello che mi aveva detto pochi giorni prima il professor Atilio Borón, sulle responsabilità del governo rispetto alla fuga di capitali neri all’estero.
Tutto quadra.

Saluto Maurizio, e lo ringrazio per tutte le informazioni. Mi chiede se sono della CIA o qualche altra «spazzatura» del genere. Gli dico di no, che stia tranquillo.
Gli chiedo che programmi ha per il futuro, per la sua famiglia.

«Sobrevivir, amigo! Es lo único que he aprendido en este mundo! Sobrevivir y sobrevivir!»

Mi volto, e il cinguettio ricomincia: «cambio, cambio, cambio!».

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Ufficialmente storico di professione, in realtà, più che alla Storia, interessato alle storie. Per collezionarne il maggior numero possibile, ho trovato la mia formula vincente: girare il mondo con una vecchia Polaroid, lasciando a lei il compito di rompere ogni volta il ghiaccio.

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