“Il Signore delle mosche”: quando l’isola non è più deserta.

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“L’uomo produce il male come le api producono il miele”

È solo una delle verità tanto datate quanto attuali raccontate ne “Il Signore delle mosche”. Premio Nobel nel 1983, Golding rompe gli schemi dei “perbenissimi” anni ’50 con questo romanzo brutale, cruento, ferino: getta le basi per la letteratura dei “Cannibali” italiani (ndr movimento pulp italiano degli anni ’90), dei nichilisti Palahniuk, Welsh, Don DeLillo, molto prima che alcuni di loro nascessero.

Se la vostra idea di “peggio” abbinata alla parola “isola deserta” è legata ad Antonella Elia che colpisce Aida Yespica a suon di silicone, abbandonate l’idea di iniziare questo viaggio perché pagina dopo pagina vedrete l’anima dei protagonisti, dilaniata, smembrata, disumanizzata.

L’ingresso nella narrativa è brutale e si viene catapultati nella storia senza premesse o contestualizzazioni: l’arco temporale non è delineato, c’è una non ben definita guerra da cui questo gruppo di benestanti ragazzini viene allontanato, il loro aereo precipita in un oceano non “conosciuto”. Su un’isola deserta senza nessun adulto, si comincia col fare quello che ci si aspetta da un branco di ragazzini dell’alta borghesia anglosassone: costruire rifugi, accendere ed alimentare un fuoco, procurare cibo, ma prima tutto eleggere un capo.

Ralph, biondissimo ed ammaliante dodicenne, viene eletto capo nel momento in cui raccoglie una grossa conchiglia. Con una nonchalance degna dei grandi leader, divide i gruppi, assegna compiti, si sceglie i consiglieri: Jack, addetto agli approvvigionamenti, e Piggy, pragmatismo allo stato puro. La personalità dei tre protagonisti può, in linea generale, essere ampliata ai gruppi di cui sono i punti di riferimento. La loro evoluzione/involuzione è il filo conduttore di tutto il romanzo. Ralph è mediamente attento, mediamente interessato, mediamente ribelle, proprio come un buon adolescente. Piggy è eccessivamente maturo, eccessivamente malato, eccessivamente sottomesso, proprio come un ottimo adolescente; Jack è preoccupantemente malvagio, preoccupantemente smanioso, preoccupantemente represso, proprio come un cattivo adolescente.





La voglia di tornare alla civiltà dura un secondo (tre capitoli in termini letterari), quanto basta a Jack per trovare il coraggio di oltrepassare il limite. Egli fa una scelta: abbandona la cura del fuoco, necessario per segnalare la loro presenza sull’isola, per inseguire ed uccidere un maiale. Metaforicamente sceglie di abbandonarsi al suo istinto primordiale piuttosto che assecondare gli ordini. E’ il sangue il simbolo dell’abbandono, dell’idea di comunità, della coscienza della civiltà. Subito dopo la prima uccisione, Jack diventa sempre più efferato, inizia con il suo gruppo di cacciatori ad allontanarsi da Ralph, ma soprattutto dall’idea di organizzare una società in quel posto sperduto dal mondo.

I ragazzi si dividono così in due gruppi, Ralph cerca di creare un sistema giusto e rispettoso delle leggi con Piggy, che cerca di diffondere le sue idee di libertà e democrazia, ma è Jack con le sue vane promesse ed i suoi modi austeri a raccogliere più proseliti.

“Le leggi!” gridò Ralph. “Tu non rispetti le leggi!”
“A chi gliene importa?”
Ralph chiamò a raccolta tutte le sue facoltà.
“Ma le leggi sono l’unica cosa che abbiamo!”
Ma Jack gli guardava in piena rivolta:
“Chi se ne frega delle leggi!”

La perdita della speranza di democrazia si palesa con la cruenta uccisione di Piggy e Simon, un altro ragazzo taciturno e solitario che ha cercato di riportare Jack sulla via della ragione rimettendoci la vita.
Non c’è “lieto fine”: all’arrivo dei soccorsi niente cambia, non c’è pentimento, non c’è rimorso, non c’è la volontà di ritornare alla civiltà ci sono solo le lacrime di Ralph:

“Ralph piangeva la fine dell’innocenza,
la durezza del cuore umano e la caduta nel vuoto del vero amico,
l’amico saggio chiamato Piggy. “

Quello che rende “Il Signore delle mosche” uno dei 100 libri da leggere in assoluto è il messaggio che l’autore vuole inviare e la sottigliezza stilistica con cui lo fa. La Natura sull’isola è pacifica, calma, indifferente, non pone i ragazzi davanti a nessuna scelta drastica, gli offre cibo, possibilità di riparo, non li mette davanti a nessun ostacolo se non quelli che si creano essi stessi (le bestie che pensano che abitino l’isola all’inizio del racconto non sono altro che ombre e promemoria della loro malvagità). E’ manifesto che l’uomo sia nato per produrre male, e questo è così insito nell’animo dell’uomo da non salvare nemmeno un gruppo di adolescenti. Non è, quindi, il contesto storico o la società a corrompere la razza umana, ma è la sua stessa natura.

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