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I sultani nostalgici

Secondo me uno dei piaceri più segreti per un musicofilo incallito è custodire gelosamente un album, un pezzo o un gruppo, spesso semi-sconosciuto per molti; lo so è un fatto un po’ malato a pensarci, quanto meno inquietante, tipo quei criminali seriali che rapiscono la “preda” e la tengono in soffitta (o cantina, come preferite!), le danno da mangiare, la fanno lavare, vestire bene, solo per osservarla in estasi. A pensarci questo è ancora più inquietante.
Sembra strano, ma nell’era di internet, youtube, social e compagnia bella ci sono ancora album che si tramandano col più classico passaparola.
Sultans of Sentiment dei Van Pelt è uno di questi. Uscito nel 1997 non è che vendette chissà quanto, e da allora non fu mai più ristampato, cosa che lo ha reso praticamente introvabile.
I Van Pelt sono stati apparentemente uno dei tanti gruppi indie/emo americani, venuti fuori negli anni ’90, dopo gli exploit commerciali di band come Sonic Youth prima, e Pavement più tardi.
Dopo il primo album, abbastanza apprezzato ma più grezzo, qualche cambio di formazione ed esce Sultans of Sentiment, secondo ed ultimo della loro carriera. Come già detto le vendite non furono esaltanti, i vari componenti smantellarono il gruppo poco dopo, e dei Van Pelt rimase il ricordo di qualche vecchio fan.

van pelt band

Il passaparola, però, fu micidiale; nel tempo passò da «uno fra i tanti» a vero disco di culto per gli amanti del rock alternativo anni ’90.
Il perché è difficile a dirsi. In parte forse perché i Van Pelt, pur giovanissimi, mescolano le carte, creano una formula nuova, un po’ di indie più commerciale come quello dei Pavement, un po’ di emo/slow-core tipo Slint, Codeine, un tocco di minimalismo alla Karate. Tutto poi condito dai testi di Chris Leo  frontman, cantante e chitarrista  e da quel suo modo di cantare senza metrica e riferimenti, a tratti irritante perché così monotono, a volte vero soliloquio, che conosce improvvise e inaspettate fiammate.
Musicalmente tutto il disco è saldamente imperniato su una sezione ritmica minimale ma molto efficace e sulle chitarre che, tra arpeggi e riff, si intrecciano in maniera paranoide, come per il pezzo di apertura, forse uno dei più conosciuti, “Nazen Kills a cat” dove lo stesso arpeggio si ripete quasi all’infinito per tutto il pezzo e si apre sul finale, così ripetitivo ma incisivo.
Quasi tutti i pezzi seguono un modo molto peculiare ed uniforme di svilupparsi; si raggiunge l’apice, una specie di climax emotivo, sempre molto lentamente, verso il finale del pezzo, frequentemente con note e strutture che si ripetono ossessivamente.
È il caso della delicata “The Good, The Bad and The Blind”, critica verso il nuovo senso di misticismo, spesso deleterio («Crucify our father Edison/Sacrifice to the New Mysticism/Smash the bulbs that lengthen the day/Grind up the pills that took the fever away»). I Van Pelt non disdegnano però avventure in territorio più propriamente indie rock, come in “Yamato (Where Really Die)” o “My Bouts With Pouncing”, dove le chitarre pulite lasciano il posto alle distorsioni, la voce si inasprisce e ritmi si alzano.
Sono episodi isolati però. Il mood del disco è nostalgico, molto intenso. A me fa sempre una strana sensazione, come se mi ricordasse qualcosa, qualcuno o qualche posto, ma sono immagini sfocate.

C’è spazio anche per le vicende personali, come la fine di una storia nell’appassionata “Don’t Make me Walk my Own Log”: il pezzo, così delicato e riflessivo, si chiude con un lungo, straziante ed irrazionale finale e le urla di Leo («She’s going away, away, away […]»). Un pò fatti personali, un pò critica alla società come in “Let’s make A List”, quasi recitata, dove se la prendono con quel modo molto anglo-sassone di organizzare, programmare e schedulare tutto (“Let’s make a list/ so we can feel like we’re accomplishing something/so we can feel like we’re working together”).
L’intensa “Do The Lovers Still Meet at the Chiang-Kai Shek Memorial” chiude l’album seguendo la stessa formula di apertura: un tappeto di arpeggi che si aprono sulla triste coda finale («Tonight it’s coming out/It took one beer to throw these scars out»).
Più o meno quaranta minuti, tra intensi ed emozionanti pezzi slow-core e improvvise cavalcate elettriche. Quaranta minuti che scivolano via velocemente, lasciando come un senso di nostalgia, intenso ma vago. Hai voglia di piangere, ma non sai perché.
Allora apritevi una San Miguel e staccate tutto. Fate andare il disco, il resto verrà da solo.

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Dottore, musicante, avido collezionista di dischi, libri e strumenti. Beatlesiano convinto e con una certa inclinazione al rumore.

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